Di Orazio Ruggieri.
ITRI – “Non c’è pace tra gli ulivi” non è solo il titolo di un fortunato capolavoro cinematografico che reca la firma, nelle vesti di regista, di Giuseppe De Santis, l’artista di Fondi assurto al livello di figura consacrata dalla critica internazionale. E’ un modo di dire, ormai codificato dalla fenomenologia di certi luoghi, che sottolinea il disagio di chi si sente prigioniero di certi schemi e cerca di liberarsene anche attraverso una rivolta che vuole dare il “la” a un fenomeno di palingenesi rigenerativa di una società marcia e comunque violentemente opprimente. A Itri, dove il film era stato girato, con la magnifica interpretazione di Raf Vallone, un grande artista che le nostre zone hanno “adottato”, facendone un cittadino non “onorario” ma “a tutti gli effetti”, oggi sembra prendere piede una nuova realtà che connota la sua location tra il verde dell’albero della pace. Questa volta, però, “tra gli ulivi” è “scoppiata” la pace. Eh, sì, perché, seguendo le vicende e i momenti caratterizzanti di certe giornate di questo periodo settembrino, a fianco dell’equinozio di autunno, che ci sta regalando ancora belle giornate dal punto di vista metereologico, cogliamo, con compiaciuto gradimento, segmenti temporali caratterizzati da melodiose e coinvolgenti melodie che riappacificano l’animo con la serenità quotidiana e ne elevano l’afflato metafisico verso quell’empireo che permea della sua dolcezza anche l’animo spiritualmente più depresso. Spieghiamo subito che la recensione di cui poco sopra non è il sogno dell’Ippogrifo della mente che vorrebbe alzarsi sopra le miserie e le angustie quotidiane, ma è lo spirito che si è potuto cogliere in occasione di una serenata dal fascino irrepetibile che ha avuto come scenario la zona di Pagnano (l’area rurale antistante il fatiscente scalo ferroviario di Itri) e come palcoscenico naturale la contrada denominata Pagnano e Mustaga. I maestri, fascinose novelle sirene che hanno ammaliato con i ritmi dei loro strumenti le più recondite corde del cuore, erano Mario Manzi, un prestigioso professionista locale prestato alla dirigenza della macchina burocratica della Capitale, in un percorso professionale più che brillante e inversamente proporzionato al declino, da caduta dell’Impero Romano d’Occidente, che ha segnato la città, un tempo “caput mundi”, dagli anni Ottanta in poi. Con Mario Manzi, alla chitarra, hanno completato il terzetto, Francesco Bedendo, anche lui alla chitarra che rappresenta, per il geometra ideatore di soluzioni rigeneranti gli ambienti sui quali va a incidere la sua opera tecnica e per il musicologo che sta promuovendo il giusto rilancio della canzone che utilizza il dialetto itrano, l’hobby del tempo libero che l’estroverso e poliedrico artista impiega per diffondere a ogni latitudine l’immagine del paese che ha dato, tra l’altro, i natali a Michele Pezza, la controversa figura secondo quegli scettici che non vogliono arrendersi all’evidenza e che perpetuano nel bollare l’antigiacobino e l’insorgente difensore dell’identità meridionale contro gli eccessi, sanguinari, repressivi e lussuriosi (basti pensare alle antesignane di certi movimenti per la pratica libera della devianza femminile, che ha trovato nella Luisa Sanfelice e nella Eleonora Pimentel Fonseca, gli emblemi della cosiddetta Repubblica partenopea del 1799) come l’italico aborto –secondo loro- della retrograda resistenza vandeana che insorse contro gli eccessi sanguinari di una rivoluzione che poi mostrò il suo vero volto autoritario, Francesco Bedendo, stavamo dicendo, per il quale la chitarra rappresenta la bacchetta magica per convertire i quotidiani acciacchi mentali procuratici dagli assilli che si chiamano Tasi, Tari, Irpef, Inps, Asl, Equitalia, autovelox, crisi, disoccupazione e chi più ne ha più ne metta. E tertius, che questa volta “datur”, è colui che si autodefinisce l’”ultimo menestrello”, il maestro Giovanni Petrillo. “Accarezzando”, con vibrante passione, le corde del mandolino, lo strumento deputato, per antonomasia, a supportare il saluto musicale di colui che rivolge alla donna che, dopo qualche giorno, è destinata a condividere con lui gioie e dolori, nella buona come nella cattiva sorte, quasi uno struggente distacco dal cordone ombelicale familiare di origine per allargarsi in un contesto meravigliosamente più ampio, il maestro Giovanni, formatore, a cavallo di due secoli, di promesse diventate fulgide realtà artistiche, ha rappresentato l’exultet inebriante della musicalità che ha pervaso il fascinoso scenario degli oliveti della località di Itri che vede nascere per prima, rispetto agli altri quartieri, il sole che si sveglia Oriente e inizia il suo quotidiano e consuetudinario giro intorno al mondo, con tutto il rispetto per il postulato copernicano che giustamente ci dice l’opposto ma che, ai romantici sognatori, che scomodano l’invito biblico di Giosuè che, nella battaglia contro gli Amorrei pregò il Signore affinchè fermasse il sole così da consentire agli Israeliti la vittoria piena contro i nemici, piace immaginare come quotidiano passeggero del carro che percorre l’eterna traiettoria che contraddistingue il dì dalla notte. E, con Mario Manzi e Francesco Bedendo, promesso sposo a quella Nadia Capotosto cui erano dirette le note fatate della melodia che ha richiamato anche il dio Pan, sottraendolo all’eterno vagabondare tra i boschi e le campagne, il maestro Petrillo, “ultimo menestrello” di un mondo che sta dimenticando il fascino del sogno, ha contribuito a sublimare la notte in cui il frutto del pentagramma ha fatto giungere fino alle stelle la melodia delle sette note che addolcisce i cuori della gente. Anche quelli più duri e refrattari ad accogliere le cose belle della vita.
E, con la voce fuori campo, auguriamo a Nadia e Francesco, che si uniranno in matrimonio sabato 30 settembre, un percorso di salute e serenità che accompagni la realizzazione di tutti i sogni che tengono riposti nel loro personale cassetto, autentico vademecum per la Felicità.