Come mai non si vedono più in giro le persone che fanno l’autostop? Ecco come mai sta accadendo da qualche tempo. Tutto la verità dopo mesi e mesi viene a galla.
Negli anni ’90 era quasi una specie di rito di passaggio, una scena tanto comune quanto iconica, ritrovarsi in strada e chiedere un passaggio per raggiungere un posto. Forse c’erano tante persone che si fidavano dell’altro rispetto ad oggi. Film, libri e canzoni ne hanno fatto un simbolo di avventura, libertà e, a volte, di pericolo.
Oggi, però, quell’immagine sembra quasi scomparsa. Cosa è cambiato? Cerchiamo di capire i motivi dietro a questo cambio di rotta che non era mai accaduto prima.
Un’epoca in cui l’autostop era “cool”
Se pensiamo agli anni ’80 e ’90, l’autostop non era solo un modo economico per viaggiare, ma anche una scelta di vita. Era legato a un immaginario romantico: prendere la strada, affidarsi al caso e alla gentilezza degli sconosciuti. Era un atto di fiducia nel mondo, ma anche una ricerca d’indipendenza. Non è un caso che il cinema abbia amplificato questo fascino, trasformando il pollice alzato in un gesto iconico.
Film come “Thelma & Louise” (1991) lo hanno reso simbolo di ribellione e libertà, mentre in pellicole più leggere come “Rain Man” (1988), l’autostop portava a situazioni ironiche e surreali. Era una maniera per raccontare incontri casuali e sorprendenti, storie che nascevano dal nulla e potevano portare ovunque.
Per quanto l’autostop avesse un’aura di avventura, il cinema non ha mai ignorato il lato oscuro. Chi non ricorda l’angoscia di “Non aprite quella porta” (1974) o “The Hitcher – La lunga strada della paura” (1986)? In queste storie, fermarsi per dare un passaggio a uno sconosciuto o salire sull’auto sbagliata si trasformava in un incubo. Questi film hanno piantato il seme del dubbio: e se il prossimo passaggio fosse l’ultimo?
Questi racconti hanno contribuito a creare un’ombra di paura attorno all’autostop. A partire dagli anni 2000, con l’avvento di internet e dei servizi di ride-sharing, la percezione è cambiata: salire sull’auto di un estraneo è diventato un rischio, più che un’opportunità.
Oltre alla cultura della paura, c’è stato un cambio di paradigma pratico. Oggi viaggiare è più semplice ed economico. BlaBlaCar, Uber, voli low-cost e treni veloci hanno reso inutile il gesto del pollice alzato. Perché affidarsi alla sorte quando puoi prenotare un viaggio con un clic e sapere già chi guiderà?
C’è anche un fattore sociale: negli anni ’90, le persone avevano un senso di comunità più radicato. Fidarsi degli altri era meno complicato. Oggi la narrativa collettiva è intrisa di diffidenza: “Non sai mai chi puoi incontrare.” Anche i genitori, che un tempo raccontavano storie di viaggi in autostop, ora preferiscono mettere in guardia i propri figli.
Nonostante tutte le alternative moderne, l’autostop aveva un fascino unico che oggi sembra perduto. Era una forma di serendipità, di scoperta non pianificata. Ogni viaggio poteva diventare una storia, un incontro che ti cambiava inaspettatamente. Non tutto era perfetto, è vero, ma forse è proprio questa imperfezione a renderlo speciale.
C’è una scena in “Into the Wild” (2007) che riassume bene tutto questo: il protagonista, Chris McCandless, sceglie di rinunciare alla comodità per abbracciare l’incertezza della strada. Per lui, come per molti che facevano autostop, l’importante non era solo arrivare, ma vivere il viaggio.
Forse l’autostop non tornerà mai di moda. Viviamo in un’epoca di controlli, di applicazioni che tracciano ogni nostro movimento. Ci piace sapere chi incontreremo, dove andremo e quanto ci metteremo. Ma c’è qualcosa di romantico nel lasciare che il destino prenda il volante, nel fidarsi di uno sconosciuto solo perché ci ha sorriso dalla macchina in corsa. Chissà, magari un giorno rivedremo qualche temerario sul bordo della strada, con uno zaino in spalla e il pollice alzato. E tu? Ti fermeresti?