Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) è il lavoro che Dario de Francesco, Giovanni Pannozzo e Giorgia Piracci portano in scena al Teatro Opera Prima di Latina per ricordare il dramma dell’Olocausto.
Lo spettacolo ha debuttato a Roma presso il teatro Stanze Segrete nel gennaio 2014 per poi approdare a Fondi (LT) nel 2015, in un evento patrocinato dal comune. E’, inoltre, stato presentato in numerose scolaresche della provincia di Roma e Latina.
Presentato dall’associazione culturale Animedicarta, con la regia di De Papi, vanta la collaborazione dell’attore Giovanni Lombardo Radice. Dopo il successo avuto nelle varie città e dalla stampa, lo spettacolo arriva a Latina in un unico appuntamento: domenica 21 febbraio 2016 alle ore 19:00
Lo spettacolo prende vita dalle testimonianze e dalle memorie dei lager per raccontare la deportazione, dall’ingresso al campo fino alla morte, per tenere viva l’attenzione su accadimenti spesso ignorati.
Il dramma del trasferimento coi treni merci, l’arrivo ai campi, il diverso modo di vivere la tragedia fra uomini e donne, la contrapposizione fra vittima e oppressore in un viaggio in cui lo spettatore si trova a partecipare in prima persona.
L’attore e spettatore vivranno la stessa esperienza, immersi nella stessa atmosfera di sconforto e disperazione. A rafforzare tale clima il regista, oltre alle figure dei deportati, ha voluto inserire quella del carnefice nazista e raccontare il suo personale viaggio di trasformazione, dall’infatuazione verso la nuova idea politica, dall’abnegazione per la causa fino a alla disumanizzazione, risultato ultimo di chi è ormai succube dell’idea stessa. Uno spettacolo forte, crudo, ma indispensabile per non dimenticare.
Tra il 1939 e il 1945 nei campi di morte, ideati dalla Germania nazista per eliminare ebrei e avversari politici, scomparvero sei milioni di ebrei e circa cinque milioni di civili dei territori occupati. Le vittime erano tutti coloro che il Terzo Reich riteneva appartenere a una razza inferiore e un pericolo per l’omogeneità razziale della popolazione germanica. Non solo, le vittime furono anche i comunisti, socialisti, testimoni di Geova, omosessuali, rom, polacchi e bambini tedeschi con handicap fisici o mentali.
Nel silenzio, pressoché totale del mondo, prima che la guerra giungesse al termine, due ebrei su tre sarebbero morti per mano dei tedeschi e dei loro fiancheggiatori nell’ambito della cosiddetta “soluzione finale”.
Il mondo ricorda questi eventi col nome di Olocausto, dal greco “bruciato interamente”, o col termine ebraico “Shoah” – catastrofe, distruzione.
Lo spettacolo vuole parlare di questi accadimenti partendo da due simboli di quel periodo: il campo di concentramento nazista e la scritta “Arbeit Macht Frei” (Il lavoro rende liberi), posta all’ingresso di numerosi campi, fra cui il campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau e quello di lavoro di Dachau. In quest’ultimo i prigionieri che lasciavano il campo per recarsi al lavoro, o che vi rientravano, erano costretti a sfilare sotto il cancello d’entrata, spesso accompagnati dal suono di marce marziali eseguite da un’orchestra di deportati appositamente costituita.
Una scritta illusoria e beffarda per coloro che mai avrebbero visto la libertà, morendo a milioni in quei luoghi (“le tre parole della derisione […] sulla porta della schiavitù”, così scrisse Primo Levi ne La Tregua).
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