Omicidio Alpi, nelle carte del Sismi la pista italiana legata al traffico d’armi da Gaeta? Ecco l’inchiesta di Wired

I nuovi documenti declassificati dall’intelligence militare, che Wired ha potuto leggere in anteprima, mostrano come i nostri servizi sapessero che l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è legato al traffico d’armi gestito da italiani per sostenere il generale Aidid, nemico giurato degli Usa. Una pista troppo scomoda per la politica?

Foto_desecretazione-496x335Sono le 17.40 del 9 febbraio 2006 quando Carlo Taormina, deputato di Forza Italia, chiude ufficialmente i lavori parlamentari d’indagine sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i due giornalisti di Rai3 uccisi in un agguato a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Due anni di inchiesta, serrata, che termina con l’audizione più importante, paradossalmente tenuta in fondo alla lista. Per due giorni i parlamentari ascoltano il racconto di un somalo, Abdullahi Bogor Muse, a capo dei migiurtini del clan Dorod, popolazione del nord della Somalia. È l’ultima persona che Ilaria Alpi intervista, cinque giorni prima di morire. “Avete parlato di armi?” chiede il presidente Taormina “Sì, di armi”, conferma Bogor Muse. Peccato che di quella intervista durata almeno tre sono rimasti appena venti minuti. E nessun cenno di traffici di armamenti. Gran parte delle immagini sono sparite.

Era questo il servizio che i giornalisti di Rai3 stavano preparando tra il 12 e il 20 marzo di vent’anni fa. Non lo abbiamo mai visto, qualcuno lo ha bloccato per sempre in una via polverosa di una Mogadiscio caotica. Le truppe italiane stavano abbandonando la Somalia dopo due anni di missione finita nel disastro, devastata dalla guerra civile tra i clan, divisi sostanzialmente in due fazioni. Da una parte Ali Mahdi, signore della guerra vicino all’Onu e agli Usa; dall’altra il “cattivo” generale Aidid, legato alla nascente rete islamista, nome divenuto famoso per la battaglia descritta nel film Black Hawk Down di Ridley Scott. In mezzo i trafficanti di armi, reti in grado di rifornire i combattenti con Kalashnikov, lanciagranate, munizioni, esplosivi. Un fiume di milioni di dollari, che terminava nei conti correnti di gente come Monzer al-Kassar, il siriano arrestato nel 2008 dagli agenti della Dea, conosciuto come “il principe di Marbella”, uno dei maggiori broker di armi del mondo. Alleanze che passavano attraverso incontri discreti in alberghi romani, dove gli emissari dei signori della guerra somali usavano reti di faccendieri italianissimi e navi pagate dalla cooperazione italiana, usate per trasporti discreti.

Dunque quel servizio di Ilaria Alpi poteva colpire al cuore l’Italia che si preparava ad entrare nella seconda Repubblica, con l’inizio del ventennio berlusconiano. Facendo, probabilmente, affondare tante teste.

Davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta, Abdullahi Bogor Muse ricorda vagamente quella intervista girata la mattina del 15 marzo. La giornalista aveva sul quaderno un nome chiave, anzi due. Il primo era quello di un somalo, tale Munye; il secondo quello di una compagnia di navigazione, la Shifco. Sapeva che lì, nel nord della Somalia, una nave di quella flotta era stata fermata da un gruppo di pirati. Cosa c’era nella stiva? Pesce e reti? O altro? E, soprattutto, per chi lavorava? Qui si nasconde il segreto – inconfessabile – che ha resistito per vent’anni, difeso dagli apparati dello stato e che oggi riemerge tra le migliaia di dossier appena declassificati dal governo Renzi e dalla presidente della Camera Laura Boldrini.

La nostra intelligence militare, il Sismi, all’omicidio casuale di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non ci ha mai creduto. Decine di documenti classificati, da “riservato” a “segreto”, raccontano quel fiume di armi gestito dai trafficanti italiani, che sbarcava sulle coste somale durante la guerra civile. Un messaggio dal centro di controspionaggio del Sismi di Trieste datato 15 giugno 1994 – classificato “riservato” spiega: “La giornalista Ilaria Alpi e il suo operatore sarebbero stati uccisi a Mogadiscio perché avevano scoperto un traffico di armi nel Porto di Bosaso (…). Il traffico sarebbe gestito dalla Libia ed i responsabili avrebbero navi di una compagnia marittima di cui è responsabile tale Mugne, cittadino italo-somalo”. Ovvero quel “Munye” annotato sul quaderno della giornalista del Tg3. Notizia che il primo ottobre viene confermata da un altro messaggio proveniente dal centro Sismi di Firenze: “Il braccio armato dei Fratelli mussulmani in Somalia sarebbe il destinatario, fra gli altri, di ingenti quantitativi di materiali di armamento (…). Sarebbero emerse notizie secondo le quali le motivazioni che avrebbero determinato l’uccisione in Somalia della giornalista della Rai Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, andrebbero ricercate nei citati traffici di armi”.

A chi erano dirette? E chi materialmente organizzava i traffici? È forse questo il punto più delicato che emerge dai documenti declassificati, rimasto fino ad oggi sotto un cono d’ombra. L’organizzazione indicata dal Sismi, che faceva riferimento alla flotta Shifco – strettamente legata ad ambienti italiani, con sede a Gaeta, in provincia di Latina – fino al maggio 1993 era fedele all’alleato dell’ONU e degli Usa in Somalia, Ali Mahdi. In un rapporto reso pubblico nel 2003 delle Nazioni unite, relativo ai traffici di armi del 1992, la flotta italo somala era indicata come vettore di armi dirette proprio alla fazione anti Aidid. Ma per i servizi segreti militari italiani qualche mese dopo le alleanze cambiano: “Munye, direttore della Shifco, avrebbe trasferito il proprio sostegno al generale Aidid”.

Dunque quando Ilaria Alpi arriva a Bosaso la flotta italo-somala stava dando un supporto logistico al nemico giurato dell’Onu e degli Usa. Scoprire che quelle armi probabilmente imbarcate su una nave comandata da un capitano italiano (“È il tuo capitano?”, chiedeva ironicamente il sultano di Bosaso ad Ilaria Alpi nell’intervista) stavano per arrivare ai miliziani di Aidid era una notizia più che scomoda. Decisamente irricevibile.

fonte: www.wired.it

 

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