Molti si chiedono «dove?», ma forse la domanda giusta è «per quanto a lungo?». Per l’Italia la principale incognita della complessa operazione di trasferimento e distruzione delle armi chimiche siriane riguarda i tempi di permanenza in un porto del nostro Paese.
Tempi che rischiano di protrarsi per settimane o forse mesi generando allarme e proteste tra l’opinione pubblica. Per capirlo basta considerare le mosse delle navi coinvolte nell’operazione coordinata dall’Onu e dall’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche. Martedì – mentre la nave da trasporto danese Ark Futura caricava nel porto siriano di Latakia i primi container pieni di iprite e componenti chimici – la nave americana Cape Ray – su cui devono venir trasbordati e distrutti i gas – era ancora a Norfolk in Virginia. La sua partenza non avverrà prima della prossima settimana e dunque difficilmente raggiungerà il porto italiano scelto per il trasbordo delle armi chimiche prima della fine di gennaio. Frattanto le armi chimiche caricate a Latakia potrebbero arrivare in Italia e restarvi immagazzinate in attesa del trasferimento sulla Cape Ray. Sigrid Kaag, la diplomatica olandese responsabile della missione Onu, smentisce l’ipotesi ricordando che l’Ark Futura e la Taiko, la nave norvegese impegnata nella stessa operazione, «resteranno in mare attendendo l’arrivo al porto del restante materiale chimico».
Ma il problema vero in questa missione non sono le assicurazioni bensì le incognite. Le operazioni iniziate martedì a Latakia sono partite con oltre una settimana di ritardo rispetto alla data del 31 dicembre in cui in teoria doveva essersi già concluso il carico di tutte le 1300 tonnellate di armi e componenti chimici provenienti da 12 siti siriani. Martedì peraltro sono stati imbarcati «simbolicamente» solo una decina di container provenienti da due siti. Gli altri, tra cui quelli con i componenti più pericolosi, devono ancora raggiungere Latakia attraversando territori e strade minacciate dai ribelli. In un simile scenario è assolutamente plausibile ipotizzare ulteriori ritardi di settimane o mesi durante i quali i container con i materiali più pericolosi – come l’iprite e i componenti del sarin – potrebbero venir trasferiti in Italia e immagazzinati nel porto prescelto in attesa del resto del materiale. Anche perché l’immagazzinamento dei veleni siriani in un porto Nato è, da un punto di vista militare, assai più sicuro rispetto alla permanenza in alto mare a bordo di due mercantili difesi soltanto, stando al programma Onu, da una fregata norvegese e da una cinese.
Del resto l’ipotesi di una prolungata permanenza sul suolo italiano era forse già prevista. Pur ipotizzando la partenza da Latakia di tutte le 1300 tonnellate entro il 31 dicembre, l’Onu fissava solo il 31 marzo come data per la distruzione delle 20 tonnellate di componenti più pericolosi e il 30 giugno per l’intero carico.
A questo punto resta da capire se i veleni siriani verranno mandati a Taranto, base Nato più centrale rispetto alla rotta da Latakia e specializzata nelle operazioni di trasferimento logistico, o si sceglieranno invece centri a minor concentrazione urbana come i porti di Augusta e Gaeta o la base navale di Capo Teulada. Quest’ultima circondata da cento chilometri di costa sarda e da 72mila ettari di terreni «proibiti» adibiti a poligono, è forse la scelta migliore dal punto di vista della sicurezza e della prevenzione di eventuali proteste, anche se decentrata rispetto alla rotta di provenienza. I porti di Augusta e Gaeta, seppur già off limits rispetto al territorio urbano in quanto riservati alla marina Usa, rischiano invece di ritrovarsi al centro di movimenti e mobilitazioni di protesta simili a quelli registrate di recente a Niscemi in seguito all’allestimento di un nuovo sistema radar americano.
fonte: Gian Micalessin www.ilgiornale.it
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