Ad un 85enne, trasfuso con sangue infetto nel 1968 al Goretti di Latina, verranno pagati poco meno di 300mila euro. Lo ha deciso all’udienza di martedì scorso (18/10) la Corte di Appello di Roma con la sentenza n. 6501. Lo Stato italiano aveva appellato la precedente sentenza del Tribunale di Roma del 2014 di condanna al risarcimento. L’85enne di Latina era stato contagiato dal 1968 all’età di 31 anni ed aveva poi scoperto di essere positivo al virus dell’epatite C solo nel nel 1996 quando la malattia lo aveva, nel frattempo, danneggiato. Dopo 54 anni di convivenza con un virus, e dopo due processi di primo e secondo grado che hanno confermato l’impianto processuale dell’avvocato Renato Mattarelli (che lo ha assistito) l’85enne ha una certezza: le trasfusioni del Goretti del ’68 che gli hanno rovinato la vita erano infette e potevano essere evitate. Questo spiega il perché, ancor prima di scoprire nel 1996 di essere stato contagiato, l’uomo si sentiva sempre stanco, tanto da essere considerato uno sfaticato. La verità è che era affetto dal 1968 da una malattia che al tempo non era nemmeno conosciuta e che gli provocava spossatezza. All’epoca infatti il virus HCV responsabile dell’epatite C non era ancora stato isolato e solo nel 1988 venne approntato il primo test. Proprio su questo lo Stato italiano ha appellato la sentenza del tribunale che aveva accolto la tesi dell’avvocato Mattaelli.
Secondo il legale a cui l’uomo si è rivolto – a prescindere dalla scoperta del virus responsabile dell’epatite C (che in effetti nel 1968 era sconosciuto) e del fatto che solo 20 anni dopo (1988) venne approntato il primo test per rilevare l’HCV nel sangue dei donatori – la responsabilità per i contagi da trasfusioni di sangue delle amministrazioni sanitarie non decorre dagli anni in cui la scienza aveva scoperto il virus (ed inventato il test per rilevarlo) ma da quando, con i mezzi diagnostici a disposizione all’epoca, era possibile indirettamente evitare il contagio e quindi già negli anni ’60.
Il Tribunale prima, e la Corte di appello di Roma hanno quindi accertato e confermato che le trasfusioni di sangue somministrate nel 1968 al Goretti di Latina all’allora 31enne potevano essere controllate ed evitate (se non direttamente per il tipo di virus e il test sconosciuto all’epoca), almeno indirettamente, ad esempio: attraverso la distruzione del sangue dei donatori che presentavano valori elevati delle transaminasi quali indici di una sofferenza epatica (a sua volta indice di un’infiammazione virale). Sicuramente fra i fattori della vittoria giudiziaria c’è la “scoperta” da parte dell’avvocato Mattarelli di una remotissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione del Regno d’Italia del 1936 (precedente quindi alla seconda guerra mondiale che occasionò l’uso massimo delle trasfusioni di sangue sui feriti e all’Italia repubblicana) che dichiara quasi 100 anni fa la pericolosità infettiva delle emotrasfusioni: “…è di comune conoscenza che la trasfusione del sangue, rimedio prezioso per casi clinici talvolta disperati, è anche il mezzo diretto e sicuro per comunicare infezioni da soggetto a soggetto…” (Cass. civ., sez. un., 19 giugno 1936).